Vedere e ricordare, al tempo dei social media
“e nell’ansia che ti perdo ti scatterò una foto“
(Tiziano Ferro)
Registriamo, fotografiamo, e “scansioniamo” con i nostri occhi un quantitativo enorme di video e immagini, che ci affrettiamo a condividere sui nostri account social. Ma che cosa accade al nostro modo di guardare, e di percepire la realtà e il presente, in questa frenetica – e ormai abitudinaria – attività di registrazione? E ai nostri ricordi, così velocemente archiviati nelle memory card? L’interazione con queste tecnologie ci sta cambiando: non possiamo certo impedire il naturale e rapido evolversi dell’innovazione, ma possiamo impegnarci a viverlo in maniera più consapevole.
Il prezioso contributo che leggerete nelle prossime righe è quello di uno studioso attento e sensibile alle tematiche sociali come Massimiano Bucchi, professore di Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento, scrittore (il suo libro più recente è Sbagliare da Professionisti, edito da Rizzoli), e commentatore per il Corriere della Sera.
R: Massimiano, l’argomento immagine non è nuovo per te: penso al tuo bel libro “Nature Immaginate”, in cui ricordo citata questa frase della biologa e fotografa americana Felice Frankel “Tutto quello che comprendiamo lo abbiamo prima rappresentato”. L’utilizzo dell’immagine, come mezzo di comunicazione, ha radici molto lontane…
M: “Certo, sin dagli inizi della Scienza Moderna, quindi dalla metà del Seicento, l’immagine aveva già un ruolo centrale. Basti pensare all’ opera Micrographia di Robert Hooke, curatore degli esperimenti della Royal Society, che consiste perlopiù di sole immagini. Tutt’ora l’immagine riveste un ruolo fondamentale, anche se quella che vediamo sugli schermi presenta una serie di aspetti e di elementi molto diversi. A questo proposito, proprio l’Osservatorio Scienza e Tecnologia e Società con cui io collaboro, ha condotto qualche tempo fa uno studio incentrato su quello che chiamiamo alfabetismo visuale. Nel visualizzare un post, le persone tendono ad essere attirate più dalla parte iconografica, che da quella testuale.”
R: Il tempo in cui trascorrevano giorni ansiosi prima di poter vedere stampati i rullini delle vacanze è lontano. Tutti i telefoni cellulari sono ora dotati di fotocamera, ed è diventato molto facile, e soprattutto veloce, registrare la realtà che viviamo tutti i giorni. In quale modo sta cambiando, questa incessante attività di fotografare, riprendere e condividere ogni cosa, la maniera in cui vediamo e percepiamo lo scorrere della nostra vita?
M: “Questa è una domanda a cui non è semplice dare risposta, nel senso che viviamo un paradosso: da un lato non è mai stato così facile documentare quello che vediamo. Dall’altro, la maggior parte di queste immagini non verrà mai più rivista da nessuno, nemmeno da noi. Una volta prima di scattare una fotografia si doveva selezionare il numero di scatti che si poteva raccogliere in un rullino, e gli scatti che alla fine valeva davvero la pena di stampare erano molto limitati. Oggi si ha il problema opposto: si ha il problema di che cosa cancellare, di che cosa non fotografare. Il paradosso sta nella grande facilità di raccolta da un lato, e nella sua perdita di senso dall’altro.”
R: Qualcuno dice che i testi spariranno dai social per lasciare spazio alle foto: fra le ragioni ci sono le piccole dimensioni dello schermo del cellulare, il fatto che le foto alimentano il nostro lato più narcisista, e la natura istantanea della comunicazione visiva. Che impatto credi potrà avere, questo cambiamento, tra i fruitori dei social?
M: “Anche in questo caso, dare una risposta è difficile perché non possiamo prevedere quello che accadrà. Quello che posso argomentare è che la lettura, e anche la digitazione dei testi è diventata molto frettolosa: viviamo nell’epoca dei refusi. E c’è da porsi anche un’altra domanda, alla quale i colossi del web si guardano bene dal dare risposta: che cosa significa vedere sul web, sui social? Credo che Facebook, forse anche Youtube, consideri un video visualizzato dopo soli sei secondi. Che cosa può significare passare sei secondi su un video? Che si è assimilato qualche tipo di contenuto? Questo è un grande equivoco, no? Gli stessi “mi piace” possono avere diversi significati. I conteggi delle visualizzazioni sono il lato più facilmente monetizzabile dalle piattaforme, ma non sappiamo nulla del loro significato. In un recente articolo pubblicato sulla rivista “Nature” che si intitolava The Human Screenome Project si parlava proprio di come i numeri hanno rilevanza fino a un certo punto, perché non sappiamo qual è il significato e il senso che sta dietro a questi numeri. Il nostro Osservatorio Tecnologia Scienza e Società, che già prima ho citato, ha condotto un test da cui è emerso che molte persone visualizzano contenuti che hanno a che fare con la medicina, la salute, e le diete, sui social. Ma soltanto l’1% si basa poi effettivamente su questi contenuti, quando si tratta della propria salute. C’è una zona grigia estremamente ampia della quale, per ragioni evidentemente commerciali, noi non possiamo sapere nulla. Lo stesso vale per il fenomeno delle fake news. “
R: Il rapporto con la tecnologia e in particolare con i social network è anche il tema di una tua pièce teatrale di successo, “Touch delle mie brame”, dove due generazioni sono a confronto proprio sul tema dei social e delle tecnologie digitali.
A proposito di ossessioni social, sembra che il fenomeno della selfie dismorfia si stia diffondendo anche in Italia. Per assomigliare al proprio selfie, pesantemente alterato con app di fotoritocco, si arriva a ricorrere alla chirurgia estetica. Dalla correzione dell’immagine digitale, al desiderio di correggere la persona reale: a quale inarrivabile ideale di “bellezza” si sta anelando?
M: “Non conoscevo questo fenomeno: non so quanto sia effettivamente diffusa questa realtà e quanto sia magari enfatizzata da alcuni giornali. La riflessione che viene da fare è comunque che siamo abituati a pensare che siamo noi ad usare le tecnologie. In realtà sono anche le tecnologie ad usarci e a cambiarci. Nella colonna sonora di quello spettacolo c’è un pezzo scherzosamente intitolato “Whatsapp is using me” (che è il contrario di quello che c’è scritto di default nella piattaforma). Se ci pensiamo, è effettivamente così perché queste piattaforme usano i nostri dati per i loro scopi. Qualunque tecnologia ci cambia. Pensiamo, ad esempio, all’automobile: da una parte ha il vantaggio della velocità e della comodità per gli spostamenti, dall’altra lo svantaggio della pericolosità e dell’inquinamento. La tecnologia che permette di farsi dei selfie definisce delle convenzioni estetiche che prima non c’erano. Da osservatore, posso notare che c’è un modo di mettersi in posa e un modo di ritrarsi nei selfie che è funzionale a questa tecnologia, che è un esempio di come siano definiti degli standard, delle aspettative. Senza dimenticare che la componente imitativa è un elemento fondamentale del comportamento sociale, per cui da un lato ci si rappresenta come si vorrebbe apparire, dall’altro influisce anche come si pensa di dover apparire sui social.”
R: Ormai è consuetudine affidare con leggerezza i propri ricordi alla memory card del cellulare: questo sembra modificare anche l’attività del nostro ricordare. È come se lo smartphone stesse diventando un “contenitore esterno” di ricordi: l’ “effetto Google”* sta quindi influenzando anche la nostra memoria autobiografica?
(*si parla di “effetto Google” per indicare la tendenza a non memorizzare quello che si sa di poter ritrovare facilmente in rete, ndr)
M: “Questo è un aspetto veramente interessante: viviamo in una sovrabbondanza di dati, ma viviamo anche in un’epoca dove la memoria è molto più labile. Da un punto di vista anche prettamente tecnico, i supporti tecnologici hanno un’obsolescenza molto maggiore. Pensiamo ai floppy disk, ai cd-rom… Sono supporti che si degradano, con il tempo. Ora possiamo scattare una foto per memorizzare gli orari di un negozio. Prima dei telefoni cellulari, ricordavamo a memoria decine di numeri. Adesso c’è anche chi non si ricorda il proprio. C’è un bel racconto di fantascienza di Isaac Asimov che si intitola “Nove volte sette” in cui c’è un conflitto fra civiltà molto avanzate, e in entrambe le civiltà ci si è talmente abituati ad usare il calcolatore che nessuno sa più fare i conti a mente. Poi però c’è una crisi energetica, e questo conflitto viene risolto grazie all’unica persona che è rimasta in grado di fare le moltiplicazioni a mente. Noi abbiamo questa grande illusione di vivere in un’epoca unica, ma la tecnologia ha sempre avuto conseguenze di questo tipo.”
R: Ti occuperai ancora di rapporto con i social e la tecnologia, in uno dei tuoi prossimi lavori? Qual è il tuo augurio circa l’evolversi di queste tendenze, e il tuo consiglio, se ce l’hai, per un uso equilibrato e intelligente di questi mezzi?
M: “Non mi occuperò dei social, ma di tecnologia sì… per ora è prematuro svelare di più.
Il mio contributo, se ne posso dare uno, è questo: la tecnologia, soprattutto la più recente tecnologia, è congegnata in modo da non farci pensare. In modo da darci l’impressione che usarla sia un fatto scontato. Che faccia parte del nostro ambiente, come l’acqua che esce dal rubinetto. Mentre noi dobbiamo sempre, di fronte a qualunque tecnologia, porci delle domande. Non è semplice, perché queste tecnologie sono talmente facili da usare che si rendono invisibili. Pensiamo nuovamente all’esempio dell’automobile: come per l’uso di qualsiasi altra tecnologia, abbiamo delle responsabilità, nel suo utilizzo, verso noi stessi e verso gli altri. La domanda più giusta da porsi è sempre: “perché?” Francesco Bacone, quando parlava dell’innovazione diceva che di certo non va respinta, ma deve esserci sempre una ragione nel cambiamento. L’atteggiamento che abbiamo oggi tende ad essere quello di sposare o esaltare una nuova tecnologia solo perché è “nuova”. E’ piuttosto superficiale, no? Quindi, nei confronti di una nuova tecnologia è bene chiedersi: per fare cosa? Con quali conseguenze? Migliora la vita? A chi? E se la peggiora, a chi? A quale prezzo? Queste sono le domande che io consiglio di porsi.”✦
Riferimenti:
“Nature Immaginate”, di Massimiano Bucchi ed Elena Canadelli, edizioni Aboca
“La scienza comunicata per immagini”, di Massimiano Bucchi e Barbara Saracino, 13 Febbraio 2015
“Instagram al Tramonto”, di Paolo Landi, edizioni La Nave di Teseo
“Faking it: how selfie dysmorphia is driving people to seek surgery”, The Guardian
“Il tempo della memoria elettronica”, Mind, Gennaio 2020
[sibwp_form id=3]